Lo Yoga e la tecnica pianistica

di Filippo Faes

“Esiste una forza vitale, un‘energia, un impulso che viene trasformato in azione attraverso di te, e poiché tu sei unico nella storia del mondo e in tutti i tempi, questa espressione sarà unica e irripetibile. Se tu la blocchi, non potrà esistere attraverso nessun altro e andrà perduta per sempre. Il mondo non la avrà. Non è tuo compito giudicare quanto buona essa sia, o quanto valga, né far raffronti con quella di altri. Tuo compito è preservarla, esprimerla chiaramente e direttamente; mantenere il canale aperto.“

Martha Graham

Premessa

Abitando le possibilità della nostra vita

Simile ad una reggia, il palazzo della nostra esistenza quando siamo bambini possiede un numero infinito di stanze. Sono le stanze delle nostre possibilità, dei nostri mille talenti, sono la vastità di noi stessi che attende solo di essere esplorata, messa in pratica e tradotta in azione, per poi ampliarsi ulteriormente. Sono la prodigiosa plasticità che ha il nostro cervello e con esso il destino che ci creiamo, le opportunità che continuamente si presentano a noi e continuamente si rinnovano. Le stanze della nostra infanzia sono ancora, per la maggior parte, vuote, indistinte, non “arredate“ dalla nostra esperienza: iniziano appena a conoscere l‘impronta della nostra presenza, della nostra personalità e della vita vissuta. Poco definite ancora, benché accoglienti e ricche di stimoli, sono comunque pronte ad aprirsi e dare il benvenuto a noi e alla nostra curiosità di nuove esperienze in qualunque momento decidiamo di muovere alla loro scoperta.

Poi, crescendo, ognuno di noi coltiva interessi, approfondisce e frequenta uno o più campi del lavoro e dello svago, vive affetti e passioni. Accanto a questi nascono le abitudini… Tutto ciò significa cominciare ad eleggere come nostra dimora abituale alcune stanze piuttosto che altre, significa trascorrere dentro di esse una sempre maggior parte del proprio tempo e arredarle nella maniera più comoda, più confacente alle nostre consuetudini, significa scoprire e poi ripetere i percorsi che collegano le une con le altre. Per la maggior parte di noi, il numero di queste stanze abitate è molto, ma molto inferiore a quello che il nostro corpo e la nostra mente consentirebbero: tuttavia, almeno al principio, ci rassicura il pensiero che anche le stanze accanto, pur momentaneamente disabitate, rimangano comunque a nostra disposizione, pronte ad aprirsi e ad accoglierci non appena ne sentiremo la voglia o il bisogno.

E poi un giorno ci viene in mente di provare a rientrare in una di esse, in una stanza nella quale è da un po’ che non mettiamo piede: ma ci coglie un vago disagio, o pigrizia… Immaginiamo che, non frequentata da mesi com‘è, sarà impolverata, l‘aria pesante. Forse è meglio aspettare, magari una bella giornata soleggiata e calda, per poter spalancare le finestre e rinnovare l‘aria… Ma quando la giornata arriva, è passato ormai del tempo, e nella stanza disabitata i cardini della porta si sono arrugginiti, sono divenuti scontrosi, tanto da dissuaderci dal tentare di aprire la porta. In quella stanza, sentiamo, troveremmo sicuramente ragnatele, sporcizia accumulata nel tempo.. Pensiamo che certo ci riempiremmo di polvere se tentassimo di camminarci dentro o di scrostare i battenti della finestra.

Oramai la stanza è buia, non più amichevole né accogliente, tanto che il solo immaginare di entrarci ispira una sensazione sgradevole, mina e corrode molte delle confortevoli certezze che ci siamo nel frattempo costruiti, tanto che la nostra mente va subito a qualche cosa d‘altro, divaga, sfugge. Da questo momento, è probabile che in quella stanza non entreremo più; da questo momento è sicuro che la nostra vita si è ristretta. Tutto quanto descritto fin’ora ha un nome: invecchiare.

L‘invecchiamento si presenta a noi come un piano inclinato. Una volta presa velocità su di esso, diventa difficile invertire la rotta o anche soltanto cambiare direzione: le abitudini esercitano un’attrazione gravitazionale che aggiunge peso alla nostra esistenza e ci vincola sempre più alle poche stanze della vita che ci siamo abituati a frequentare. Chi di noi si eserciti a riconoscere, a smascherare questo processo in sé e negli altri, giorno dopo giorno si accorgerà di quanto esso condizioni l‘agire, il parlare, il modo di riflettere, e anche semplicemente il linguaggio corporeo (cioè l‘incedere, il gesticolare, l’espressione degli occhi e del viso, l’atteggiamento fisico) delle persone che gli stanno intorno. In una parola, chi impara ad accorgersene, a farci caso, è in grado di vedere a che punto di questo percorso sia giunto egli stesso, e dove siano gli altri.

Nella nostra vita, è inevitabile che questo piano inclinato ci venga incontro prima o poi, (è lui, tra l’altro a provocare la sensazione tipica per cui, più passano gli anni, più il tempo corre velocemente e ci sfugge dalle mani). Eppure non è affatto necessario subirlo, cioè farci condizionare da esso. La pendenza è un’insidia, certo, ma ogni insidia è anche un’opportunità, cosí come ogni immagine negativa in fotografia serve per ottenerne una positiva. Anzi, su un piano inclinato si può danzare, come Martha Graham, compiendo evoluzioni ancor più eleganti, dinamiche e leggere di quelle consentite su una superficie orizzontale! Basta capire -accorgersi, ancora una volta- la dinamica delle forze che la pendenza esercita su di noi, per imparare a sfruttarle, come in un gioco, a nostro vantaggio.

Nello Yoga, ogni Asana, condensando una sapienza millenaria, è architettata proprio in modo da accompagnarci a rivisitare, ritrovare una o più stanze tra quelle a rischio di essere abbandonate per prime. E in ogni seduta di Yoga, queste stanze le tocchiamo con mano, facciamo esperienza fisica di cosa voglia dire avventurarci in regioni inesplorate di noi stessi ed espandere i nostri confini. Per questo motivo, all’iniziale senso di scomodità estraneità e disagio delle Asana, subentra presto la sensazione di ritrovare, ogni volta che ci accostiamo alla loro pratica, delle vecchie amiche.

Anche la musica ha un‘azione simile: essa è per sua natura la più multidimensionale tra le arti: praticarla –e imparare a ragionare in termini musicali- aggiunge dimensioni nuove alla nostra percezione della realtà e del tempo, oltre a consolidare in noi il bisogno di risuonare sulle frequenze di quell‘armonia di fondo che sta all‘origine della nostra empatia con il mondo e con noi stessi.

Le stanze che la musica schiude e permette di esplorare sono infinite. Comporre, per esempio, è un viaggio entro noi stessi, grazie al quale il palazzo principesco che è custodito in ciascuno di noi si materializza di volta in volta nelle forme delle architetture sonore che andiamo a creare, le quali poi, ogni volta che torniamo a visitarle, si presentano sotto aspetti nuovi e sempre diversi, pur manifestando sempre l’espressione della stessa personalità creatrice. Poche cose sono inebrianti come il contatto con il proprio potere creativo quando questo prende forma e si fa materia sonora, e sono certo che l’ uomo non abbia ancora inventato una droga dall’effetto potente quanto lo è l’incontro con noi stessi, nel regno della possibilità illimitata eppure straordinariamente reale.

Il rapporto con lo strumento (e alcune osservazioni sulla maniera di studiare)

Anche il suonare uno strumento comporta l’esercizio di una disciplina psicofisica di continua espansione, verifica e perfezionamento di noi stessi. Lo studio della tecnica, e la consapevolezza della filosofia che sta alla base di essa, equivale a uno yoga svolto attraverso lo strumento. A patto di mantenere ben desta l‘attenzione su di noi mentre lo esercitiamo, i risultati potranno trascendere il semplice sviluppo della tecnica (cioè l’abbreviare la distanza tra noi e la piena realizzazione della nostra volontà musicale) e mirare a “lustrare il nostro spirito giorno dopo giorno, come uno specchio che rifletta la realtà con limpidezza cristallina“ cosí come dicono i Maestri Zen. L’esercizio della tecnica può cioè assumere la funzione che scagliare le frecce ha nel libro di Eugen Herrigel “Lo Zen e l’arte del tiro con l’arco“, sul quale avremo occasione di tornare. (Non è un caso che anche nel pianoforte, come già in un arco, abbiamo a che fare con corde in tensione da cui viene “scoccato“ un suono …).

Cosí come nel tiro con l’arco il bersaglio finale a cui si tende è la verità racchiusa in noi stessi, allo stesso modo la tecnica pianistica può essere intesa come esemplificazione pratica del nostro approccio alla vita, da allenare e verificare costantemente, onde lasciar succedere ciò che ci siamo prefissi come obiettivo (1) spegnendo ogni intenzionalità spuria che, insieme con la paura dell’insuccesso, disturberebbe la pulizia dell’ esecuzione.

È fondamentale, ovviamente, che alla base della tecnica pianistica vi sia un pensiero coerente, tale che ogni elemento si basi sulle premesse stabilite e verificate all’inizio, costruendo un sistema in cui ogni azione sia interdipendente e non contraddica le altre. Per me è stata di grande importanza l’esperienza fatta studiando a Napoli, con Vincenzo Vitale, dal 1979 al 1984, anno della sua morte.

Vitale fu uomo, artista e didatta di grande valore e di imponente personalità (qualità che si accompagnavano ad altrettanto spiccate contraddizioni del suo carattere le quali, specie negli ultimi anni, rendevano i rapporti con lui abbastanza burrascosi, e il percorso per arrivare ad attingere alla sua scienza e ai grandi benefici che le sue lezioni potevano trasmettere simile a quello che un salmone percorre, controcorrente, risalendo le rapide di un fiume). D‘altra parte, è probabile che una personalità come la sua fosse destinata a far tutto in grande e con una certa, fatale, ineluttabilità, dal rispondere al telefono con la sua celebre voce profonda al manifestare le asperità e i lati non risolti, e in definitiva fortemente autolesionistici, del suo carattere.

In ogni caso, gli va riconosciuta una formidabile capacità didattica, maturata attraverso uno studio lungo e intelligente della tradizione pianistica napoletana e di numerosi trattati sulla fisiologia dell’esecuzione pianistica (primo fra tutti quello di Attilio Brugnoli) e soprattutto attraverso una formidabile capacità di sintesi e di rielaborazione attraverso l’istinto che gli permetteva di colpire nel segno, facendo lezione, senza bisogno di perdersi in teorizzazioni e dettagli inutili, ma trasformando e risolvendo situazioni e problemi tecnici, spesso con un tocco talmente mirato, risolutivo ed essenziale, da sembrare quasi demiurgico.

Riconoscendo, anzi premettendo il fatto che ogni discorso inerente alla fisiologia dell’esecuzione pianistica debba necessariamente ricorrere ad approssimazioni e a semplificazioni anche drastiche onde essere effettivamente utile e non, al contrario, paralizzante per lo studente, egli ha comunque stabilito alcuni princípi che ritengo, e ho sempre verificato, applicandoli sui me e sui miei studenti, essere molto efficaci. (2)

Il primo di essi è che, nel suonare, la posizione della mano deve essere una conseguenza, non una premessa. Le scuole tradizionali hanno quasi sempre impostato gli allievi prescrivendo una posizione corretta di partenza, assieme ad esercizi da eseguirsi sforzandosi di mantenerla. Vitale, invece, notava come l’idea di buona posizione fosse stata desunta dall’osservazione dei grandi pianisti, per i quali tale posizione null’ altro era se non il risultato di un corretto atteggiamento muscolare che essi, più o meno istintivamente mettevano in pratica.

Egli dunque affermava che occorre partire dall’ analisi e lo studio di quest’ ultimo. Poi, soltanto dopo aver attivato, sorvegliato e instradato correttamente i processi muscolari che concorrono al suonare, si arriverà alla posizione, la quale varierá necessariamente da persona a persona, a seconda della conformazione della sua mano e delle catene muscolari. 

Continuando a semplificare al massimo, nel suonare, il dito ha due funzioni: quella di sostenere il peso dell’avambraccio e quella di percuotere il tasto. Per sviluppare la prima, affidata ai muscoli e tendini flessori (situati nella parte inferiore dell’ avambraccio, che partono dal gomito e arrivano alla punta  delle dita),

Figura 1

si comincia con un esercizio, di flessione, appunto, in cui, partendo da una situazione in cui spalla e braccio (omero) sono in stato di completo riposo (l’omero cade a piombo) e in cui l’avambraccio è appoggiato (cioè pesa) su un dito appena aggrappato alla tastiera,

Figura 2

si inizia a sviluppare una contrazione dei flessori che, partendo dalla falangetta, si trasmette alla falangina, falange, poi metacarpo e carpo,

Figura 3
Figura 4

poi attraverso il polso all’ulna e e al radio, formando cosí una serie di leve che, solamente grazie all’azione del flessore, arrivano a sostenere il peso dell’avambraccio, consentendo di raggiungere la desiderata posizione.

Figura 5

Tutto il peso viene a gravare cosí sul dito. Fondamentale in questo esercizio, da eseguire lentamente e con una certa concentrazione, non prima di avere avuto la certezza assoluta che il braccio sia a riposo come prescritto, è che il movimento di tutto il sistema di leve sia originato unicamente dall’azione del flessore (non sia cioè aiutato dal sollevamento dell’avambraccio –nel qual caso ci si accorge subito che sul tasto abbassato il peso non si scarica completamente) e, ancor più importante, che non vi sia alcuna pressione verso il basso (ovvero non si schiacci) come invece a volte succede per un eccesso di zelo. L’unica forza che l’azione muscolare deve trovarsi a contrastare è quella di gravità. (Questo punto è cruciale, perché una pressione indebita causa uno sforzo soverchio dei flessori che può portare, in casi estremi, alla tendinite -tipicamente localizzata nella parte inferiore dell‘avambraccio, vicino al gomito. Ho esperienza di diverse risoluzioni di casi di tendiniti, superate e guarite proprio portando a consapevolezza dell’allievo, e poi togliendo, quel sovrappiù di pressione, e ripristinando cosí la corretta azione del peso, più che sufficiente, nella maggior parte dei casi, a ottenere il suono desiderato).

Pur essendo assai semplice concettualmente (o forse proprio per questo motivo) questo esercizio richiede una notevole concentrazione e libertà mentale per essere eseguito correttamente. Sarebbe meglio farlo sotto la guida di un docente esperto e sensibile, e comunque sempre a piccole dosi, giacché occorre molta limpidezza della mente e dell’attenzione per accorgersi di ciò che sta realmente succedendo nei nostri muscoli, evitando di cadere nell’ inganno che le abitudini ci tendono, spesso sotto forma di sensazioni falsate. Il punto di arrivo rappresentato dalla posizione raggiunta diventa poi punto di partenza per la costruzione di un sistema tecnico che arriva infine alle formule più complesse.

L’esercizio successivo consiste nel trasferimento del peso (ovvero, partendo dalla situazione a cui eravamo giunti (figura 5) in cui tutto il peso è appoggiato sul secondo dito, si attua una contrazione rapida, quasi istantanea, del terzo dito (per esempio) rilassando contemporaneamente il secondo). Cosí facendo, il peso si trasferisce appunto al terzo dito, che abbassa il tasto corrispondente (si procede per gradi congiunti). Questo meccanismo è il principio del suonare cantabile.

Bisogna riconoscere che, quando Vitale dava dimostrazione di questo esercizio semplicissimo ed essenziale, il suono che traeva dal pianoforte era di una ampiezza, ricchezza e profondità che mi è capitato raramente di riascoltare in seguito, e tutto questo avveniva mentre la sua mano dalle proporzioni imponenti rimaneva praticamente impassibile. Senza alcuna scossa, sobbalzo o apparente sforzo della volontà, il peso del braccio traslava semplicemente da un dito all’altro. Ancora una volta, assistere a quest’esecuzione dava un’impressione non dissimile da quella descritta da Herrigel allorché la freccia si scoccava dall’arco del suo Maestro, senza che questi, la sua mano, il suo braccio e il suo arco, tradissero la pur minima scossa, che turbasse la loro impassibilitá. Si percepiva, scrive il filosofo tedesco, come non fosse il Maestro ad agire ma fosse invece il tiro ad avvenire.

All’intuito del Maestro Zen noi possiamo affiancare il controllo dell’orecchio, per cui con un buon allenamento, siamo in grado di valutare l’esercizio eseguito da un allievo soltanto ascoltando il suono prodotto, guardando in un’altra direzione e chiedendo poi di rilassare questa o quella zona del braccio o della mano. (È il caso di precisare che solo la sensazione della contrazione viene percepita lí, perché la contrazione vera e propria in realtà si origina altrove –ovvero, ad esempio, la tipica sensazione di contrazione nella zona tra il dorso della mano e il polso che si può insegnare allo studente a risolvere, cambiando così istantaneamente la qualità del suono, deriva evidentemente da un’azione muscolare che nasce nell’avambraccio…).

Anche la caduta dell’ avambraccio diviene, all’ interno di questo sistema, un’ azione che parte e arriva alla situazione muscolare della Figura 5. Una rapida -e ancora una volta quasi istantanea- contrazione del flessore profondo dell’avambraccio fa sollevare quest’ultimo assieme alla mano, e lo fa ricadere subito dopo su un dito il quale, attraverso la contrazione istantanea del proprio flessore (descritta sopra) raccoglie, per cosí dire, l’avambraccio in caduta e lo sostiene, riportandolo alla condizione della figura 5 e alla posizione pianistica.

Vitale insisteva sul fatto che la contrazione del flessore profondo dovesse avvenire nella maniera più rapida per evitare rigidità superflue. (Simile raccomandazione a proposito dell’azione dei flessori delle dita nel trasferimento del peso, e parimenti in quella degli estensori nella fase di articolazione). Altra osservazione importante è che, nel breve momento in cui l’avambraccio sta sospeso e si appresta a ricadere, la mano non si deve sollevare anch’essa, (ovvero non deve essere solidale e far corpo unico con l’avambraccio a causa della contrazione degli estensori) ma rimane invece abbandonata. In altre parole: non bisogna fissare il polso.

Cosí, proseguendo, anche lo studio delle ottave diventa l’esercizio di una sequenza di cadute, nelle quali l’avambraccio è sostenuto, anziché da un singolo dito, da una sorta di ponte che si viene a creare tra 1° e 5° dito.

Figura 6

Ciò che abbiamo descritto fin qui sono i primi mattoni su cui si costruisce un edificio complesso, in perenne divenire, e che deve sempre essere in grado di migliorarsi, plasmarsi, recepire istanze anche in contrasto con alcune delle premesse che lo hanno determinato, senza timore di confrontarsi con esse ed essere messo in discussione. Una delle leggi che ne costituiscono le fondamenta è che bisogna evitare, per quanto possibile, di esercitare contemporaneamente due azioni muscolari antagoniste tra loro. Sembra un’ovvietà, eppure il cosiddetto esercizio dei martelletti, con cui generazioni di pianisti hanno iniziato a suonare, prescrive l’articolazione di ogni singolo dito rigorosamente curvo, mettendo cosí fin dal principio in competizione flessori ed estensori, (gli uni impegnati a curvare il dito, gli altri a sollevarlo) ed impone inoltre di sollevare il 4°dito da solo, cosa che sforza quell’aponeurosi che collega tra loro gli estensori di 3°, 4° e 5° inseguendo un’indipendenza teorica tanto inutile quanto dannosa e innaturale.

Aggiungendo volta per volta mattoni a questo edificio (il passo successivo consisterà nell’introdurre l’articolazione delle dita onde attuare la seconda funzione che esse possono esplicare: percuotere il tasto) si avranno esercizi dove ad ogni caduta segue un’articolazione – il che vuol dire suonare la seconda nota sempre grazie al passaggio del peso, ma utilizzando questa volta l’energia supplementare fornita da quella sorta di “rincorsa“ che è il sollevamento del dito. Di solito si comincia con 2° e 4° dito, poi si aggiunge il 3°, poi il 5° arrivando alla sequenza 2-4-3-5 che è la partenza del celebre esercizio a quattro dita. (In questo caso in seconda posizione).

Alla fine, in effetti, la cosa importante non è quali esercizi si facciano, ma come li si fa. Ovvero, importano i principî che attraverso di essi vengono applicati.

Non è questa la sede, e forse non ne esiste alcuna, per un trattato sulla tecnica pianistica che parta dal pensiero di Vincenzo Vitale. Del resto, neppure lui ha mai voluto scriverne uno, ritenendo giustamente che la trasmissione di questo sapere potesse essere affidata solo all’intuito del docente e alla sua capacità di stabilire una relazione empatica (in ultima analisi di mutuo rispecchiarsi) tra sé e l’allievo. Mi sono limitato a tratteggiarne alcune linee guida. Come ogni esempio di sistema di pensiero coerente focalizzato al perfezionamento di sé nell’esercizio di una disciplina, sono convinto che il loro valore e i campi nei quali se ne potrà trarre profitto trascendano l’ambito della disciplina stessa. Imparare a “prendere la mira“ e a focalizzare sempre più ogni propria azione, allenarsi ad intendere la posizione della mano come il risultato di un equilibrio dinamico costantemente migliorabile attraverso il bilanciamento delle energie che mettiamo in campo – un risultato mai fisso e cristallizzato, ma sempre in evoluzione –  si riverbera su una più generale nostra attitudine ad osservare la posizione che noi stessi assumiamo all’interno di quella rete di interazioni dinamiche che è la nostra esistenza.

Aggiungendo qualche ultimo elemento riguardo alla tecnica pianistica, ricordo che fondamentale in questo sistema di pensiero è il concetto di fermata, ovvero lo stabilire dei punti di arrivo (per esempio la nota più acuta di una scala o di un arpeggio, o la prima di una nuova tonalità nella progressione dell’esercizio a 5 dita) dove si ripristinino le condizioni della figura 5 (cioè: flessore del dito contratto al massimo e che sostiene l’avambraccio, tutto il peso su di esso, omero, avambraccio stesso oltre che – per quanto possibile – le altre dita, in stato di riposo). Tipicamente, ad esempio, in una scala di quattro ottave eseguita a quartine, la fermata avverrà sulla prima nota dell’8va quartina, generalmente sul 5° o 4° dito della destra e su pollice o 2° o 3° della sinistra. (Nelle scale per moto contrario, invece, partendo dalla stessa nota con le due mani la fermata sarà sulla prima nota della 4a quartina).

La fermata è un momento assai importante del suonare: mentre restiamo fermi sul tasto appena suonato, essa fa esperire una condizione di riposo dinamico, nella quale è sempre possibile tendere al miglioramento (dito più attivo, ogni tensione percepita su dorso della mano e dell’avambraccio si rilassa, omero abbandonato). Questa tendenza al meglio condiziona poi tutto lo svolgimento della restante scala (o arpeggio, o esercizio qualsivoglia) e abitua inoltre a “fotografare“ la sensazione percepita nei momenti di riposo. Essi ridurranno poi sempre più la loro durata fino praticamente a scomparire, ma manterranno la loro efficacia: alla fine si prende l’abitudine, nel corso di esecuzioni particolarmente impegnative e stancanti, ad individuare i momenti più opportuni per scaricare le tensioni,  guadagnando così in forza e brillantezza.

Il capitolo a parte della tecnica senza peso (cioè il suonare con il flessore dell’avambraccio contratto, –mentre l’ omero rimane sempre a riposo, cosa che sottrae peso- fino a quando l’unica azione che porta all’abbassamento dei tasti è la percussione delle dita) segue quanto descritto fin’ora. Alternare questa tecnica a quella descritta nelle pagine precedenti significa ampliare le differenze nel nostro modo di suonare (prima il massimo appoggio, tutto il peso – e poi, al contrario, senza peso, il più possibile presto e leggero), significa divaricare, ampliare la gamma delle nostre possibilità, creare uno spazio sempre maggiore, all’interno del quale le nostre facoltà espressive avranno agio di espandersi. A questo proposito, da ricordare anche la grande efficacia che Vitale attribuiva alle varianti ritmiche, per risolvere un passaggio particolarmente impegnativo. (3)

Concludendo questo breve e parziale excursus su alcuni aspetti della tecnica, osservo come l’esperienza vissuta continuamente su di me e sui miei studenti mostri sempre più che, se affrontata e studiata con cognizione di causa, la tecnica può diventare un mezzo per potenziare ed allargare le nostre capacità espressive, per superare ostacoli di molti generi diversi e, in definitiva, per espandere il nostro Io. Quando ci troviamo al cospetto di uno studente che –ad esempio– non sia in grado di eseguire con la necessaria facilità e destrezza il passaggio del pollice perché questo è contratto (comunissimo e tipico il problema dell’ultima falange perennemente rigida e rivolta verso l’esterno) l’impressione più forte è che questo blocco sbarri l’accesso a una stanza delle sue possibilità tecniche –espressive.

Rimuovere questo blocco, aprire un varco verso ambiti psicofisici non ancora esplorati, non solo migliorerà di molto la facilità, la pulizia e la rapidità dell’esecuzione, ma creerà anche un precedente virtuoso in grado di dar fiducia e aprire la strada alla rimozione di altri blocchi, posti su livelli anche apparentemente irraggiungibili. La disponibilità, la fiducia e la consuetudine a frequentare sempre più in profondità e senza remore le stanze della nostra esistenza sono il più prezioso regalo che lo studio delle discipline trascendenti come lo Yoga e la Musica ci possono recare. Esse ci insegnano quel movimento circolare che consiste nell’immergerci in noi stessi, per poi riemergere carichi di tesori da trasmettere al mondo grazie alla mediazione di una tecnica, appunto, che costituisce il centro –punto fermo eppure in continuo progresso– della vita di ogni Artista.

Brevi note sull’esperienza del concerto

Numerosissimi studî, apparsi negli ultimi anni, riferiscono gli affascinanti risultati di scansioni dell’attività cerebrale (ottenute ad esempio attraverso la tecnica della risonanza magnetica funzionale) effettuate su pianisti mentre eseguono un programma da concerto. Queste esperienze hanno appena cominciato a rivelarci la straordinaria complessità dell’atto del suonare considerato da un punto di vista neurologico, il grande numero di regioni cerebrali che si attivano e comunicano tra loro grazie alla musica, e anche –altro campo di ricerca importantissimo– le regioni del cervello la cui attività può venire rallentata in alcune circostanze (per esempio, un pianista che sta improvvisando è in grado di attenuare il consumo di ossigeno e glucosio della corteccia prefrontale dorsolaterale, un’area normalmente ritenuta responsabile del controllo di azioni programmate o auto-censorie, come l’impegno a scegliere le parole giuste durante un’ intervista di lavoro).

Basterebbe una infinitesima parte dei risultati ottenuti fin’ora per dimostrare che poche (forse nessuna) attività dell’uomo sono in grado di attivare e rendere plastico il cervello –di influenzare e potenziare la sua attività in maniera tanto ampia e allo stesso tempo mirata– come il suonare uno strumento. Tale complessità dissuade dall’affrontare un argomento del genere in una sede in cui lo spazio è necessariamente limitato, come è questa, e rimanda ai risultati ottenuti dagli specialisti supportati da tecnologie all’avanguardia. Contemporaneamente, per quanto riguarda il mio approccio come interprete e didatta a questi aspetti, mi sento di dire che la componente soggettiva è talmente preponderante da rendere necessario il rapporto diretto, caso per caso, con la situazione e con lo studente.

Certo è che, suonando in pubblico, un interprete porta sul palcoscenico tutto sé stesso, racconta la propria esperienza di vita intesa nel senso più ampio. Fondamentale è dunque il rapporto che abbiamo prima di tutto con noi stessi e la nostra capacità di dialogare con noi (necessaria per poter poi fare la stessa cosa con gli altri).

L’attitudine all’ascolto di sé diviene allora fondamentale. Ho l’impressione che questa facoltà dell’uomo, così essenziale, probabilmente l’unica via che ci può condurre a una reale crescita personale, sia oggi parecchio trascurata, per non dire volutamente negletta. L’abitudine, così tipica del nostro tempo, di saturare qualunque ambiente nel quale ci troviamo con musica di sottofondo, solitamente basata su un ritmo generato elettronicamente e come tale molto prevedibile, aggressivo e persistente, sembrerebbe proprio finalizzata ad evitare che l’uomo resti solo con sé stesso, ed eliminare così il rischio che impari ad ascoltarsi e conoscersi davvero. (4) In effetti, l’avversione istintiva che molti musicisti di mia conoscenza provano verso questo tipo di “ketchup“ musicale, spalmato indistintamente su gran parte del paesaggio sonoro nel quale siamo immersi –e che conferisce lo stesso identico “sapore“ a momenti della nostra vita che potrebbero invece essere diversissimi– deriva secondo me proprio dalla necessità che ogni concertista ha di creare un profondo, fluido e indisturbato contatto con le regioni profonde del proprio io.

L’ascolto di sé è un’arte che richiede nello stesso tempo estrema vigilanza e una spiccata capacità di “non agire“. Il celebre aneddoto del maestro Zen che, al primo incontro con l’allievo, gli versa del the in una tazza già piena, rovesciandolo e spargendolo sul tavolo, onde far capire attraverso l’esempio che nulla può entrare in un contenitore colmo (cioè nulla può imparare una testa nella quale non sia stato prima creato il silenzio) mi sembra il miglior consiglio da dare a un concertista nel momento in cui sta per calcare la scena. Per ottenere questo silenzio interiore, i sistemi possono essere diversissimi, e spesso in apparente contraddizione tra loro.

Gli esercizi di stretching sono un classico: oltre ad attivare, distendere e rendere più disponibili i fasci muscolari che prenderanno poi parte all’ esecuzione musicale, hanno l’effetto di riportare “su di sé“ il musicista, liberando almeno in parte la mente da quel perenne rumore di fondo che sono i pensieri nei quali viviamno immersi.

Anche riuscire dormire prima del concerto, sia pure per un breve momento, è molto efficace. A volte, stranamente, è proprio la musica che può aiutare. Ascoltare brano contrappuntistico mentre si è distesi a occhi chiusi, visualizzando l’andamento di ogni singola voce e visualizzandolo, insieme con il percorso armonico e formale della composizione, è un’attività che occupa completamente il panorama della nostra coscienza e nello stesso tempo pone il cervello in una modalità di lavoro più lenta e armonica che può preludere a un genere di sonno molto particolare. In esso, non si perde la consapevolezza della sintassi musicale e del dialogo tra le voci, ma tutto questo acquista un aspetto nuovo, a volte stranamente personificato (qualcosa di simile è descritto da Proust nella prima pagina della Recherche, a proposito del suo proseguire in sogno la lettura del libro leggendo il quale si era addormentato). Risvegliarsi da questo stato mentale è estremamente vivificante, e permette poi, quando si suona, di lasciare che la musica si espanda e viva attraverso di noi, risplendendo di quella verità propria, così apparentemente indipendente dalla volontà dell’interprete, che le dà la massima forza e ineluttabilità. (Una grande interpretazione, in effetti, può essere imprevedibile, ma, una volta che la si è ascoltata, si ha l’impressione che le cose non potessero che essere così).

La mia esperienza come didatta mi insegna anche che mai, come quando si ascolta uno studente suonare in pubblico, si è in grado di capire in maniera così vivida e chiara la sua personalità di musicista e si possono identificare gli ostacoli psico-fisici che ancora devono essere superati. Per questi motivi, sono assolutamente convinto che la vera lezione, il vero ascolto avvengano là, e che occorre far sì che i nostri studenti suonino in pubblico il più spesso possibile.

Ancora una volta, la casistica può essere talmente vasta che il solo tentare di stabilire delle regole generali porta secondo me a un restringimento del campo di azione, laddove bisognerebbe invece allargarlo. Mi accorgo sempre di più, tuttavia, che la vera azione del didatta coinvolge molto un “rispecchiarsi“ nello studente, ovvero introiettare il suo modo di suonare, viverlo dall’interno e, sempre dall’interno, trovare la via per superare gli ostacoli.

Dopo il concerto

Sempre notando che si tratta di reazioni soggettive, e che il lato più affascinante dell’esperienza di un didatta è la continua necessità di ampliare, adattare le proprie capacità di diagnosi e di intervento, calibrandole e puntandole in maniera da influire sui meccanismi più profondi del suonare dello studente (tutto ciò limitando al massimo gli effetti collaterali, cioè, ad esempio, quell’ imitazione o emulazione del docente che è comune ma non va coltivata, perché non aiuta lo studente a crescere) mi sono sempre accorto che il concerto rappresenta un momento di espansione dell’io, e che, soprattutto dopo un concerto vissuto con particolare intensità, l’io espanso sentirebbe il bisogno, prima di ricompattarsi e ritrovare i limiti consueti all’interno dei quali si muove, di trovare un riscontro, un’accoglienza, una comunicazione con l’esterno che prosegua e mantenga in vita quel canale che si è creato tra la propria parte più intensa e profonda e il mondo esterno, cioè il pubblico.

La cosa che più raccomando è ricominciare subito a studiare, se possibile giá la mattina successiva. È un approccio estremamente positivo, permette di far tesoro dell’ esperienza appena vissuta, e di sfruttare la situazione di fluidità e di scorrimento dell’energia che si viene a creare durante il concerto, indirizzandole verso scopi costruttivi, creativi, dove verranno consolidate, sotrto forma di progressi, di nuova consapevolezza e di crescita personale.

Ricordiamoci che qualunque energia non usata, non convogliata verso un obiettivo riconosciuto come importante finisce per ritorcersi contro chi l’ha prodotta. Questo è uno dei motivi per cui, per alcuni musicisti che ho incontrato e osservato, il dopo –concerto si può trasformare in un momento di frustrazione (situazione che, appunto, è indice di energie non focalizzate).

Le osservazioni e le strategie sopra descritte sono solo una piccola parte di quelle che un didatta dovrebbe essere ogni giorno in grado di chiamare a raccolta per focalizzare le energie dell’ allievo e avviarlo verso un continuo percorso di crescita e conoscenza di sé stesso che, a patto di non arrestarsi mai, di non temere il mettersi continuamente in discussione e l’ affrontare ogni volta la musica con la sorpresa e la meraviglia di un bambino che guarda il mondo intorno a sé, renderà ogni ogni ora di studio e ogni esecuzione un’ esperienza di arricchimento e di scoperta per sé e per il proprio pubblico.

© Filippo Faes 2008

Note:

(1) A questo proposito, ritengo molto importante l’esperienza fatta su di me, e trasmessa con successo a molti miei studenti, che, nei passaggi in cui i salti raggiungono il massimo grado di difficoltà (quando cioè la mente si trova a gestire e coordinare un’azione quasi simultanea in zone della tastiera molto distanti tra di loro) l’approccio più efficace consiste nel neutralizzare la propria volontà di andare a raggiungere i tasti, concentrando invece tutte le energie nel visualizzare dentro di noi la geometria della tastiera, e della sequenza che vogliamo eseguire. Avviene allora qualcosa di simile a ciò che è descritto nel libro di Herrigel, si ha cioè l’impressione che siano i tasti a venirci incontro, così come sará il bersaglio, se materializzato nella nostra mente con una concentrazione senza riserve, a venire incontro alla freccia. (Da non trascurare oltretutto, ragionando in termini più prosaici, che studiare con un simile atteggiamento porta a enormi guadagni in termini di compostezza, attenzione e risparmio di energie, tutti fattori che concorrono a migliorare l’esecuzione e aprono la strada verso ulteriori progressi).

(2) Una prova della loro validità, a mio avviso è il fatto che, una volta assimilati e divenuti realmente parte di noi, questi principî non pongono alcun ostacolo al fare esperienze diverse e applicare su di sé il dettato di scuole del tutto contrastanti con essi. Illuminante a questo proposito, è stata per me la frequentazione di Franco Gei, discepolo, amico di vecchia data di Arturo Benedetti Michelangeli e depositario dei suoi insegnamenti. Il solo raffronto tra l’approccio quasi opposto che Vitale e Michelangeli avevano alla tecnica del cantabile, ad esempio, (ottenuto rigorosamente soltanto grazie al peso, trasferito con un’azione quasi istantanea, escludendo l’articolazione – per il primo, e affidato invece ad un’articolazione lenta, e alla pressione del dito a volte quasi piatto per il secondo) stimola una serie di considerazioni molto interessanti sugli effetti fisiologici, ma anche psicologici diversissimi che si ottengono rivolgendosi all’una o all’altra scuola di pensiero, e alle mille possibilità che l’integrazione tra le due può offrire.

E a proposito del non aver timore di mettersi sempre in discussione, approfittando anche della presenza del proprio docente, di colleghi con cui confrontarsi o del pubblico (Vitale diceva sempre che la vera lezione era il palcoscenico –cioè suonare in pubblico) io sono sempre più convinto che ogni lezione debba rappresentare uno “scrollone“ come quello che si dà a un albero, in seguito al quale solo le foglie verdi, vitali e in cui circola la linfa rimangono attaccate ai rami. Le altre no, ed è un bene, perché così passerà più luce che rischiarerà la visuale e alimenterà la crescita.

(3) Ho spesso osservato come, per molti studenti, studiare un passaggio significhi, essenzialmente, ripeterlo. Ora, la mera ripetizione non porta con sé necessariamente benefici, anche perché così si rischia di ripetere, e quindi consolidare, anche gli errori. Un pianista che, preoccupato perché il passaggio non riesce come vorrebbe, studii così, mi fa pensare ad un agricoltore che, preoccupato perché la semina non dà i suoi frutti, continui a camminare avanti e indietro sul suo campo, ricalcando volta, ostinatamente, le le proprie impronte. Il probabile risultato sarà l’indurimento, il consolidamento del terreno, che diverrà così ancor meno fertile, e darà ancor meno frutti di prima. Bisogna invece trovare il sistema di ararlo, cioè scrostare le abitudini, mobilizzare, far prendere aria alle sequenze di movimenti consolidate e stantìe. Uno dei metodi per fare questo consiste nelle varianti ritmiche, molto efficaci purché siano applicate con cognizione di causa. Perciò, a ognuna di esse deve corrispondere il suo contrario (cosa sulla quale Vitale insisteva molto) nel senso che al ritmo puntato deve seguire il suo inverso, e la variante in cui ci si ferma sulla prima nota di ogni quartina, ad esempio, deve essere seguita da quella con fermata sulla seconda, sulla terza e sulla quarta, e così via.

Fondamentale è inoltre capire perché le varianti siano utili, e fare in modo, di conseguenza, di ottimizzarne l’efficacia. Le varianti servono a risvegliare l’attività delle dita e a controllare che essa non si accompagni a contrazioni spurie di altri muscoli. Ciò sarebbe naturalmente più difficile eseguendo un passaggio veloce, con molte note, così com’è scritto. Le varianti ci permettono appunto di controllare (nell’esempio citato qui sopra) una nota ogni quattro, concentrare la nostra volontà e azione su quella nota, trascurando per il momento le altre), per poi, attraverso le varianti successive, arrivare ad occuparci di ogni nota, a rotazione. È importantissimo allora che questo controllo attivo una sí e tre no (sempre per rimanere nell‘esempio delle quartine fatto qui sopra) corrisponda una reale differenza nell’attacco del tasto, nell’articolazione e nell’energia del dito tra la nota su cui ci si ferma, e le alre, che andranno invece suonate con il minor impegno possibile, quasi trascurate.

Cerco sempre di far sí che gli studenti siano in grado di differenziare quanto più possibile l’attacco del tasto in esercizi del genere, poiché sono convinto che creando e consapevolizzando differenze ,cioè divaricazioni nel nostro agire, andiamo a creare spazi all’interno dei quali il nostro potenziale può espandersi.

(4) Un’osservazione interessante a proposito riguarda alcune esperienze di biofeedback sulla coerenza cardiaca effettuate negli Stati Uniti nel corso degli ultimi anni. Poiché la frequenza del battito non è costante neppure quando il corpo è in stato di riposo, ma segue invece sempre una curva sinusoide che comporta accelerazioni e rallentamenti, è stato notato che, visualizzando questa sinusoide su un monitor che il soggetto osserva in tempo reale, è possibile che egli impari impari ad influenzare l’andamernto della curva, regolarizzandolo a poco a poco. Acquisire questa capacità ha un effetto tonificante sull’umore, sull’equilibrio psicofisico, ed è considerato un eccellente antidoto contro la depressione. L’esperienza, dunque, dimostra che noi possediamo dei recettori atti a captare una sorta di ritmo interiore, che viene ignorato dalla maggior parte degli uomini, ma ha un effetto consistente sul loro benessere.

Ora, proviamo ad immaginarci l’iperstimolazione che tali recettori subiranno in presenza di uno stimolo esogeno come, per esempio, il ritmo ossessivo e martellato di una musica techno, o qualunque sollecitazioe ad altissimo volume che riceviamo all’ interno di una discoteca. È più che evidente che stimoli di tale intensità assorderanno – prima ancora che il sistema auditivo di chi li subisce – ali delicatissimi recettori, i quali avranno bisogno di sollecitazioni sempre più forti, onde non andare in modalità di ipotonia.

Se pensiamo al meccanismo di azione di una tipica droga in grado di produrre assuefazione (ad esempio la cocaina) notiamo che si tratta di una sostanza esogena che va a iperstimolare i recettori dedicati ad una sostanza endogena (in questo caso la dopamina) rendendoli insensibili a quest’ultima, e di coinseguenza sempre più bisognosi di droga, onde evitare crisi di astinenza, cioè un’ipotonia indotta.Il meccanismo è dunque esattamente lo stesso. Ci sarebbe da chiedersi perché la legge e la morale comune non riconoscano e non vietino la creazione di una tale dipendenza in grado di produrre danni del tutto comparabili con quelli di una droga pesante, seppur di primo acchito meno evidenti..

© Filippo Faes 2008