Racconti Schumanniani

di Filippo Faes

“Dal vostro responso dipende tutto, la pace di una madre affezionata, ogni gioia di vivere di un giovane senza esperienza, che vive solamente nelle alte sfere e non vuole saperne della vita pratica […].“
Christiane Schumann

“Mia cara signora, […] mi impegno a fare del vostro signor figlio entro tre anni, […] con il suo talento e la sua fantasia, uno dei più grandi pianisti viventi, più geniale e caldo nel suonare di un Moscheles. Prova di ciò sia la mia stessa figlia undicenne, che proprio ora sto cominciando a presentare al Mondo.“
Friedrich Wieck

Nell‘ottobre 1830, due mesi dopo questo scambio di lettere tra sua madre Christiane e Friedrich Wieck, il celebre didatta, Robert Schumann si trasferisce a Lipsia, in due stanze ammobiliate affittategli da Wieck stesso nella propria casa, per intraprendere, sotto il suo strettissimo controllo, il duro cammino che avrebbe fatto di lui un virtuoso del pianoforte.

In realtà, furono proprio quella “fantasia“ inquieta cosí come i suoi orizzonti culturali, fin dall‘infanzia troppo vasti e poliedrici per adattarsi alla prospettiva angusta di esercizi disciplinati e metodici, a rivelarsi un ostacolo insormontabile tra Robert e il raggiungimento di quel traguardo: sarà la sua creatività bizzarra poi, a suggerirgli l‘idea di costringere due dita della mano destra in un apparecchio che, immobilizzandole durante lo studio, le avrebbe dovute rinforzare, risparmiandogli ore di lavoro e abbreviandogli il cammino verso la meta agognata: la conseguenza fu una lesione ai nervi della mano destra che gli impedí da quel momento di suonare.

Robert non divenne mai un grande virtuoso, l‘infallibile metodo di Friedrich Wieck non era evidentemente pensato per essere applicato ad un genio visionario, e il tempo passato come suo pigionante non diede i risultati attesi.

Ma in casa Wieck cresceva anche, e sotto l‘inflessibile controllo del padre studiava, viveva ogni aspetto della propria vita reclusa e regolamentata, Clara, la figlia del severo pedagogo, sua “creatura“, “prova vivente“ dell‘efficacia del suo metodo.

Robert la conobbe e dovette subire il fascino alieno della ragazzina: ascoltarla al pianoforte e scoprirla capace, in tutta incoscienza, di un virtuosismo e di una perfezione imperturbabile che a lui sarebbero stati sempre preclusi dovette turbarlo e accendere la sua immaginazione non diversamente da come nel racconto Der Sandmann di ETA Hoffmann accadde a Nathanael, che si innamorò di Olimpia – automa con fattezze di fanciulla, anch‘essa virtuosa di canto e di pianoforte e anch‘essa “creatura“ di un professore (l‘italiano Spalanzani). Nathanael perde il senno seguendo Olimpia nella danza e nella vita, Robert perderà l‘uso di due dita per inseguire il virtuosismo di Clara…

E tuttavia poi, per uno di quegli intrecci dei destini e caleidoscopici scambi di ruoli che dall‘Arte si trasferiscono alla vita, troviamo nel racconto di Hoffmann anche il personaggio di Clara (nomen est omen) fedele amica e promessa sposa di Nathanael, che tenta di redimerlo, di dissipare con la limpida razionalità, con l‘affetto e la rettitudine della propria natura le nubi fosche che si addensano nell‘anima di lui.

Sarà proprio questo, un giorno, il ruolo della stessa Clara Wieck – nel frattempo divenuta moglie di Robert – la quale tenterà di trattenere sulla terra lo spirito del marito, inevitabilmente destinato all‘alienazione, quando due decenni dopo, negli anni ‘50, egli starà combattendo la sua ultima battaglia contro la follia che lo sradicherà da sé e da questo mondo.

Questo trasmigrare da un ruolo all‘altro, questo impersonare due figure diverse e opposte (una situazione che già di per sé crea un‘atmosfera cosí intensamente “schumanniana“) avverrà dunque realmente e Clara sarà prima l‘Olimpia e poi la Clara Hoffmanniana, (“Clara Wieck, Clara Wieck Doppelgänger“ si firma lei in una lettera a Robert del 1830) cosí come Robert fu Florestano ed Eusebio.

Ma tornando ora alla prima conoscenza tra i due, sarà proprio il racconto a gettare un primo ponte tra i mondi distanti e complementari di Robert e Clara, un ponte questo che finirà per unirli fino a far diventare l‘una una sorta di alter ego dell‘altro. Furono i lunghi racconti che egli faceva a lei, durante i pomeriggi trascorsi insieme a casa o passeggiando in città e nelle campagne circostanti, a fornire quell‘essenziale nutrimento alla fantasia di una bambina cresciuta senza bambole, senza giochi, senza libri, ma che in compenso il padre faceva esercitare fin dall‘età di due anni, con gli apparecchi Logier per sviluppare la forza nelle sue mani infantili… 

Il mondo reale, vivo e struggente, di cui ella aveva bisogno, il nutrimento di emozioni e di sogni di cui la sua adolescenza era assetata, furono trovati da Clara nell‘universo interiore di Robert.

Schumann non smise mai più di raccontare durante tutta la sua vita: raccontò a Clara come poi alle proprie figlie e al mondo, con le parole e la musica. Raccontò a volte in maniera implicita ed ermetica, come fece con i mille messaggi, simboli ed enigmi criptati nelle sue composizioni pianistiche degli anni 30 – 40. Spesso egli scambiò, confuse e identificò le figure del narratore e dell‘ascoltatore, con il ricorrente eppure sempre nuovo gioco di ruoli dei suoi personaggi.

Chi può dire chi sia il soggetto in Von fremden Ländern und Menschen (Di paesi e genti straniere) nelle Kinderszenen)? Colui che sta narrando e descrivendo oppure chi ascolta e immagina incantato? E in Der Dichter spricht (Parla il poeta)? Non è ancora una volta il rispecchiarsi tra il narratore e il bimbo che ascolta, a rendere l‘uno indistinguibile dall‘altro?

Il tema del Racconto riappare in maniera esplicita nella tarda stagione creativa schumanniana: Nelle Balladen (Melologhi) del 1851, musica e parola si protendono l‘una verso l‘altra per incontrarsi in un punto sempre mobile sospeso sopra una terra di confine: divengono l‘una quasi punteggiatura dell‘altra (alcuni brevi incisi, accenti e interventi musicali fungono da virgole, punti esclamativi, inducono la voce a cercare particolari inflessioni…) e richiedono agli interpreti un continuo esercizio della fantasia, di attenzione e di precisione nella messa a fuoco di quel punto.

Schön Hedwig già anticipa quell‘atmosfera araldica, cavalleresca, un po‘rigida e stereotipata del II brano dei Märchenbilder e soprattutto dell‘ultimo Märchenerzählung. Lo stile si è fatto quasi Biedermeier: come osserva Charles Rosen, nell‘ultima fase della sua vita Schumann si sforzò di normalizzare il proprio linguaggio creativo, cosí come, ripubblicando le proprie opere giovanili, di sopprimere i particolari bizzarri o curiosi, quasi che, sentendosi alle soglie dell‘alienazione, temesse ora – e rifuggisse – quei mirabili effetti di illogicità, paradosso e follia con cui aveva giocato nella sua musica di un tempo.

Ciò contemporaneamente si allinea a quella tendenza più classica e rigorosa (spentosi il fuoco del primo romanticismo) che ebbe in Brahms il massimo suo alfiere, ma si presta anche all‘intenzione di comporre Hausmusik (musica da eseguirsi in famiglia) di difficoltà non proibitiva, che potesse nobilitare e innalzare il livello delle esecuzioni amatoriali nelle famiglie borghesi.

I Märchenbilder (Immagini di fiabe) si aprono in un‘atmosfera intimista da Stimmungsbild Biedermeier: si potrebbe immaginare che le prime note della viola (la – re – fa – si b – re…) sottendano le parole “C‘era una volta…“ e che l‘inarcarsi dell‘arpeggio e la sua divaricazione per moto contrario dal basso schiudano una scena come se scostassero un drappo, rivelando poi nella terza battuta – con quell‘ombra di reticenza sempre insita nella cadenza d‘inganno – chi sarà il soggetto della storia, e confessando nella quarta, attraverso la modulazione a sol minore, che egli, o ella, aveva un segreto dolore…

Il dialogo tra i due strumenti prosegue rivelando scene solari o ombrose fino a serrarsi intensificando il pathos nell‘ultima pagina, per poi sciogliersi alla fine nei trilli del pianoforte e terminare seguendo il classico schema schumanniano di due chiuse lasciate in sospeso e un terzo tentativo che porta alla conclusione. Osserva Rosen come il processo di involuzione della scrittura schumanniana, ormai ben lontana dai folgoranti sperimentalismi degli anni 30 sia – caso unico nella storia – qualcosa di profondamente commovente.

E cosí, la scena cavalleresca del secondo Märchenbild e il clima di ballata fantastica e tempestosa del terzo paiono, se accostati agli spettri dei Kreisleriana, quadretti familiari, mentre la cantilena malinconica dell‘ultimo, rischiarata dalla visione consolante – promessa di un‘utopia luminosa – della parte centrale fa calare il sipario con sette note nelle quali Bruno Giuranna riconosceva la propria esperienza di padre che, addormentati i bambini alla fine della storia, esce dalla loro camera in punta di piedi…

Robert e Clara si erano conosciuti a Lipsia il 31 marzo 1828. Ella lo vide l‘ultima volta il 29 luglio 1856, il giorno della sua morte nella Casa di cura per malattie mentali di Endenich. Erano passati più di due anni dal ricovero di Robert: da quel momento in poi, l‘unica comunicazione tra i due si era svolta attraverso le lettere e attraverso le testimonianze di Brahms, Joachim e degli altri che si erano recati a visitare il musicista. La comunione spirituale tra Clara e Robert si stava dissolvendo cosí come era cominciata: nei racconti, racconti scritti nella loro corrispondenza, racconti riferiti dagli amici……  

Il racconto della loro vita è anche impresso nello sguardo di Clara: possiamo leggerlo osservando come diversamente ci guardano i suoi occhi a mandorla dalle litografie del 1832, nelle quali il padre le prescriveva di posare “reclinando leggermente il capo e come guardando lontano, con espressione malinconica e sognante“ fino agli ultimi ritratti degli anni 70, nei quali appare l‘estenuata, infinita consapevolezza di chi sa di essere stata testimone e protagonista – di avere dedicato la propria esistenza ad una vicenda unica nella storia della musica e che mai potrà rivivere.

Quest‘ultimo sguardo dev‘essere stato non dissimile da quello che Robert le rivolse ad Endenich: “L‘ho rivisto, era sera, tra le 6 e le 7 mi ha sorriso e abbracciato con grande fatica, perché non poteva controllare le sue membra […]. Non scambierei quell‘abbraccio con tutti i tesori del mondo […]. Era uno sguardo ormai annebbiato, ma cosí indescrivibilmente tenero“ (dai Diari di Clara, 27-31.7. 1856). Fu questo l‘ultimo bagliore del suo spirito, l‘ultimo specchiarsi e reciproco identificarsi dei due.

Qualcosa di tutto ciò era già espresso implicitamente nel III brano dei Märchenerzählungen (racconti di fiabe), col suo abbandono tenero e un po‘ pedante che scioglie la tensione rigida e impettita degli altri tre: in esso vi è un riflesso di quell‘affettuosa meticolosità che faceva annotare a Robert ogni vicenda della loro vita matrimoniale (elencando persino le volte in egli cui aveva dormito con lei) finché, nella coda, non resta che una sorta di esercizio: nulla di più che un arpeggio alternante tonica e dominante al pianoforte, ripetuto e compitato con diligenza come farebbe un bambino, presagio forse dei contorni che andava assumendo la sua malattia (l‘8 giugno del ‘56, visitandolo ad Endenich, Brahms troverà Robert intento a copiare nomi di città in ordine alfabetico da un atlante)./p>

Eppure, Schumann riesce a raccontarci il progressivo cammino verso l‘alienazione in maniera assolutamente personale e commovente. La consueta formula delle due cadenze che non riescono a concludere per lasciarlo fare alla terza racchiude la promessa di una tenerezza infinita e sperduta, insieme a un senso di vacuità e di serenità ormai inutile, sospesa sopra la vertigine del vuoto come scrive Harry Halbreich a proposito del brano conclusivo dei Gesänge der Frühe, ultima opera pianistica completa, sottilmente corrispondente ai Racconti di fiabe e scritta un mese dopo di essi.

A Clara è dedicato il Quintetto op. 44. Prima grande opera musicale scritta per quest‘organico, composto nel settembre del 1842, l‘anno consacrato quasi interamente alla musica da camera, fu eseguito in privato – Mendelssohn sedeva al pianoforte – il 6 dicembre dello stesso anno e in pubblico, in occasione di una Matinée l‘8 gennaio 1843 al Gewandhaus di Lipsia, da Clara. Un mese dopo, a Dresda, fu questa l‘opera che suggellò la riconciliazione di lei col padre (i loro rapporti si erano interrotti dopo il matrimonio con Robert, nel 1840). Wieck organizzò una serata invitando una trentina di persone ad un‘esecuzione del nuovo lavoro del genero. Tra esse era Wagner, che ne fu entusiasta: “Il vostro Quintetto, carissimo Schumann, mi è assai piaciuto; ho pregato la vostra sposa di suonarlo due volte […]. Vedo la strada che volete percorrere e vi posso assicurare che è la stessa mia, là si trova l‘unica possibilitá di salvezza: la bellezza“. (Cortesi affermazioni, leggermente generiche e un po‘sorprendenti, se pensiamo a quanto divergenti furono, artisticamente, le strade dei due musicisti…).

In Friedrich Wieck il Quintetto accese “fuoco e fiamme“ secondo il diario della figlia, il che, per l‘arcigno didatta, doveva rappresentare la massima espressione di approvazione. Schumann volle farlo ascoltare a Berlioz che si mostrò invece “freddo, indifferente e scontroso“ mentre Liszt, giungendo in ritardo a una serata in suo onore il 9 giugno del 1848, mancò per una volta di generosità, definendolo “leipzigerisch“, termine non favorevole che si riferisce forse alle speculari simmetrie di alcune frasi musicali da lui attribuite evidentemente al gusto accademico e un po‘manierato dell‘alta società di Lipsia, che aveva in Mendelssohn il proprio modello ideale. Fu un riferimento sprezzante di Liszt a quest‘ultimo che causò una amara e spiacevole querelle tra lui e Schumann, per il quale la memoria dell‘amico scomparso l‘anno precedente era sacra.

Comunque sia, la vivacità delle reazioni prova l‘immediatezza e la forza comunicativa dell‘opera, mentre le numerose occasioni in cui fu presentato al pubblico testimoniano la fiducia che Robert e Clara riponevano nel suo destino. Questa è musica sfolgorante, imperiosa e sognatrice, pur essendo nata in un periodo in cui l‘amore idealizzato e fantastico dei due si era adombrato, nella vita familiare, di gelosie, frustrazioni e meschinità.

Solare ed estroverso pur non mancando di sorprendenti “discese agli inferi“ come all‘inizio dello sviluppo nel I movimento (una reminiscenza forse dell‘Aria Es ist vollbracht della Passione secondo S. Giovanni di Bach) il Quintetto cela sotto la superficie una trama di riferimenti e corrispondenze, alcuni dei quali subito evidenti, altri forse ancora misteriosi, come ad esempio l‘insistenza, profetica e velata, sulle note “mi – re“ nel primo trio del II movimento a cui risponde, nell‘ultimo, un‘altrettanto lunga serie di “mi b – re“ con anima misteriosamente legata alla prima.

Riunificando le idee tematiche dei movimenti precedenti, il finale le combina e le fa sfilare in una gloriosa Marcia dei fratelli di Davide contro i Filistei, festosa chiamata a raccolta di tutti i personaggi schumanniani, in cammino verso la trionfale e luminosa conclusione di questo memorabile, fulgido Racconto.

 © Filippo Faes 2006 (Übersetzung: Babette Dorn)